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Benessere del cane significa prima di tutto dire NO all'antropomorfizzazione!

  • Roberto Marchesini
  • 18 mar 2015
  • Tempo di lettura: 5 min

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L’antropocentrismo è un grave handicap quando si tratta di comprendere la diversità degli animali perché ci porta a ritenere l’uomo un modello e a valutare le altre specie nella misura in cui si avvicinano a noi. In tal modo, anche quando antropomorfizziamo in nostri amici a quattro zampe, in realtà li giudichiamo inferiori perché li consideriamo dei quasi umani, vale a dire interpretiamo la loro diversità come minorità. Riferendoci al cane diciamo “gli manca la parola” e al gatto “a volte sembra un freddo e cinico calcolatore”, senza renderci conto quali pregiudizi e quanta arroganza si nascondano dietro un simile atteggiamento benevolo.





Uno degli aspetti più difficili nel rapporto con i nostri pet è accettare la loro diversità, siamo cioè irrimediabilmente proiettivi e non v’è dubbio che nel mondo dei cinofili e dei catofili l’antropomorfizzazione sia considerato un peccato veniale. Se qualcuno considera il proprio cane o gatto un giocattolo o uno strumento viene immediatamente giudicato male, se viceversa umanizza e ha atteggiamenti di negligenza verso le caratteristiche di specie non riceve lo stesso biasimo. Addirittura molto spesso a chi sottolinea la necessità di conoscere le caratteristiche etologiche del pet che si adotta viene ribattuto che così si andrebbe a perdere la spontaneità del rapporto. Insomma si lascia intendere che la relazione è tanto più vera quanto meno informata si presenti e quanto più lasciata alla libera espressione. Occorre subito sgombrare il campo da questo pregiudizio: lo spontaneismo non è affatto autenticità di relazione e non è misconoscendo le caratteristiche del nostro interlocutore che si raggiunge la libertà espressiva bensì possedendo gli strumenti interpretativi della sua diversità.


Amore, fedeltà, esclusività... sono parole care all’essere umano che troppo spesso pretenderebbe di applicarle pari pari ai propri amici a quattro zampe, quasi sempre causando sofferenza o derive comportamentali. Amore disinteressato, totale dedizione, affetto incondizionato sono i luoghi comuni che il nostro egoismo pretende dai pet, in una visione esclusiva e possessiva dell’animale familiare. Questo è in fondo l’arcano che fa assomigliare cane e proprietario: non già una somiglianza di scelta bensì una convergenza di stili. Si arriva quasi ad un passo dalla fusione, chimera nei rapporti interumani, e come si può allora dubitare che quello che penso di lui non corrisponda alla realtà? Gettando gradualmente il sale del dubbio, accompagnando il tutto con una valorizzazione della diversità, che dà valore aggiunto ai punti di condivisione, è possibile far capire che la conoscenza non si traduce necessariamente in tecnicismo, che è possibile cioè raggiungere la propria individualità espressiva, la propria spontaneità, attraverso la conoscenza anzi, che solo la conoscenza può dare spontaneità e non derivare nello spontaneismo e nella caduta del rispetto verso il nostro beniamino a quattro zampe.


Non bisogna perciò demonizzare l’antropomorfizzazione, in fondo esistono anche punti in comune tra l’uomo e i suoi amici cane e gatto, ma nemmeno essere accondiscendenti, altrimenti questo rapporto è tutt’altro che educativo per l’uomo e di certo non piacevole per il nostro piccolo amico. Sgombriamo subito il campo da questi stereotipi. Una relazione per poter essere fonte di benessere dev’essere equilibrata e aperta al mondo esterno e non morbosa e chiusa al proprio interno: se ciò è vero nel rapporto interumano, lo è ancor di più quando ci riferiamo ai nostri beniamini animali. Il perché è molto semplice: tale relazione è inevitabilmente asimmetrica, dove cioè il pet si trova suo malgrado ad assecondare le coordinate di relazione imposte dal partner umano. Così se il proprietario vede in lui un figlio, una base sicura, uno strumento performativo, un giocattolo, il pet non può far altro che subire questa strettoia relazionale, quel ruolo imposto o ricercato pervicacemente. Ci piace pensare che per il nostro cane o gatto noi rappresentiamo l’unica fonte di affetto e interesse, pretendiamo l’esclusività, sovente dando libero sfogo a tutto il nostro egocentrismo senza preoccuparci se la nostra relazione sia veramente espressa a 360 gradi, ovvero in tutte le dimensioni di cui lui abbia necessità, e se tale chiusura non sia una privazione sociale per lui. Quante volte assistiamo a cani con deficit di socializzazione primaria, da cui un’incapacità a rapportarsi con altri cani, solo perché il proprietario non permette loro di vivere con un pizzico di libertà e autonomia la passeggiata!


E, ancora, quanti quattrozampe arrivano a soffrire di ansia da separazione solo perché il proprietario non si perita di dare maturazione al processo di attaccamento del cucciolo, conducendolo, come natura impone, al processo di distacco ovvero alla sua autonomia relazionale e affettiva di adulto! Il cucciolo va aiutato a diventare “socialmente abile” e per far questo si deve agire sia sull’attaccamento – sapendo che il distacco non compromette il legame bensì lo fa passare dal modello parentale a quello sociale – sia sull’esperienza di socializzazione. Meno morbosi in casa, favorire le attività esplorative e i giochi in autonomia, all’esterno consentirgli la relazione con il prossimo, siano uomini o cani: queste in pratica le ricette per evitare la chiusura. Allo stesso modo è indispensabile evitare di attribuire al proprio pet un unico ruolo, occorre dare respiro alla relazione sviluppandola su una varietà di piani di incontro e affiliazione. Nel cane il bisogno relazionale e affiliativo è molto alto, per cui se il proprietario non è in grado o non vuole aprire il mondo relazionale del cane il rischio di una chiusura morbosa e asfittica del rapporto è molto alto. Questa condizione di appartenenza propria del cane, che dà ragione al proprio vivere nel sentirsi importanti per il gruppo, evolve in questi casi in ciò che gli psicologi chiamano “relazione diadica”. In tale modello relazionale i due soggetti, anche se fisicamente separati, rappresentano un tutt’uno inscindibile dove il singolo non può vivere al di fuori di questo rapporto. Il tutto è molto poetico per noi che aspiriamo a questa esclusività, evocativa sotto il profilo della fedeltà e della coerenza ma altresì appagante una sorta di piacere egocentrico nel poter pensare di essere indispensabili per qualcuno. Ma per il cane in realtà si tratta di un problema che limita le sue potenzialità sociali e compromette il suo benessere psichico.


Occorre quindi capire quando c’è il rischio di un’evoluzione diadica, tenendo presente che tale eventualità è comunque nelle corde dell’etogramma del cane. Chiediamoci pertanto quali siano i fattori che nel cane possono essere considerati come predisponenti questa evoluzione. Innanzitutto è necessario che il soggetto abbia avuto un processo di attaccamento con delle venature di insicurezza: per esempio la madre, che rappresenta per il piccolo la base sicura, potrebbe avere tenuto troppo vicino a sé il cucciolo e impedito di fatto la maturazione di un buon livello di autonomia affettiva. Da adulto questo cane ripropone con i propri simili o con l’uomo dei rapporti esclusivi, talvolta morbosi, comunque facilmente portati a evolvere in relazioni diadiche. Un altro fattore predisponente può essere l’eventualità che cane e persona si siano incontrati in un momento di forte difficoltà per entrambi, per esempio cane abbandonato e persona sola. In questo caso i due si trovano a relazionarsi in un momento di forte instabilità emozionale ovvero di grande bisogno di appoggiarsi l’uno all’altro. L’evoluzione diadica è molto facile e qui non è un antropomorfismo sostenere che è un po’ come nel caso di due uomini che si incontrano in una situazione di forte difficoltà, come in guerra o in un carcere. L’instabilità emotiva e la permanenza in una situazione avvertita come ostile dà vita a legami indissolubili ma soprattutto morbosi e chiusi. Altre volte è il tipo di relazione che si crea tra cane e proprietario a facilitare l’evoluzione diadica, soprattutto se la persona vive sola, tende a utilizzare la relazione con il pet come sostituta di altre relazioni, è portata alla solipsia cioè fa scarsa vita sociale, rimane molte ore in casa, riversa sul cane tutte le sue attenzioni affettive e sociali. Orbene al di là di tutte le possibili evocazioni che questa fedeltà assoluta può suscitare in noi, esemplare è Argo nell’Odissea, dobbiamo sottolineare che la relazione diadica è un problema per il cane e soprattutto che non va esaltata bensì mitigata e reindirizzata.


 
 
 

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